Phom Fotografia

Transumanza © Stefano Carnelli
Transumanza © Stefano Carnelli

Transumanza © Stefano Carnelli

Transumanza © Stefano Carnelli
Transumanza © Stefano Carnelli

Transumanza © Stefano Carnelli

Con questa intervista Phom inaugura una nuova sezione: Carta Bianca.
Carta Bianca è uno spazio aperto a stimoli esterni, dove si incontrano idee, opinioni e visioni laterali sul mondo della fotografia.
In questo nostro primo appuntamento, Giulia Zorzi (che insieme a Flavio Franzoni è fondatrice e motore di Micamera, uno dei riferimenti per la cultura fotografica in Italia) ha incontrato per noi Stefano Carnelli, urbanista e fotografo, che con la piattaforma Urbiquity osserva e racconta le trasformazioni urbane ed il rapporto tra le persone e le città che abitano.

Incontro Stefano Carnelli in occasione della sua conferenza presso la Fondazione Stelline a Milano, dal titolo ‘La città che cambia. La fotografia come metodologia di ricerca sociologica-urbana’.

Di Stefano conosco già il lavoro, che ho scoperto grazie al libro Transumanza, pubblicato dall’editore tedesco Peperoni Books nel 2016 ed esposto l’anno scorso da Micamera. E’ un racconto dei pastori che in Lombardia guidano ancora l’antica migrazione stagionale di greggi. Non solo in questi luoghi, tanto che un paio di mesi fa l’Italia, insieme a Grecia e Austria, ha candidato l’antica pratica della transumanza a diventare patrimonio culturale immateriale dell’umanità Unesco.
Il fascino del lavoro di Stefano Carnelli risiede proprio nella lettura della trasformazione del paesaggio: nei paesi, nelle città deserte all’alba, in come le pecore invadono con il loro passaggio strade, fabbriche e paesi, brucano le foglie delle siepi intorno alle case mentre dentro le famiglie dormono.
Completano il lavoro una serie di ritratti dei pastori e di immagini di vita quotidiana dal sapore vagamente romantico, che ricordano un altro autore da me molto amato, Lucas Foglia.

La formazione in architettura e pianificazione urbana ha certamente guidato il suo occhio. Carnelli è convinto che le città in buona parte si trasformino in modo autonomo, seguendo un principio di continua trasformazione le cui coordinate sono il senso di identità e di appartenenza , il senso di comunità - più che gli interventi di pianificazione urbana.
Proprio per documentare questo processo, nel 2014 fonda il collettivo Urbiquity insieme all’estone Mattias Malk e allo spagnolo Pablo Conejo. Urbiquity sembra il nome di un (non) luogo, ma è piuttosto un punto di osservazione sulle dinamiche delle metropoli e delle identità urbane in movimento.

Cos’è Urbiquity e come nasce?

Urbiquity è una piattaforma di ricerca nata nel 2014 a Londra dall’incontro con Mattias Malk e Pablo Conejo, avvenuto in corrispondenza di un master in fotografia e sociologia urbana presso la Goldsmiths University. L’idea iniziale era di portare avanti una ricerca urbana attraverso la creazione di un archivio di progetti selezionati, ma presto ci siamo resi conto delle potenzialità dei nostri differenti background (Mattias è l’unico fotografo ‘puro’ tra noi, Pablo ha studiato pubblicità e comunicazione prima di passare alla fotografia, io architettura e urbanismo) e l’approccio è cambiato orientandosi sempre più a una ricerca attiva - in altre parole, alla produzione di progetti socio-fotografici. Anche la distanza, che al principio sembrava un ostacolo insormontabile per la continuazione con il progetto Urbiquity (io sono l’unico ad essere rimasto a Londra, mentre Pablo e Mattias sono tornati a vivere nelle rispettive città natali), si è rilevata essere in realtà un elemento a favore del nostro scopo di ricerca, dandoci accesso a contesti molto differenti e allo stesso tempo familiari ad almeno uno di noi tre.

Quali sono le attività svolte?

Gli anni tra il 2014 e il 2016 sono stati un periodo di incubazione, cui è seguito il primo laboratorio urbano a Tallin, in Estonia, incentrato sul tema ‘Memoria e Movimento’.
Si trattava, come poi è avvenuto anche per i successivi laboratori urbani, di un programma intensivo che alternava pratica e teoria, camminate e incontri con figure diverse.. Il nostro intento era quello di far collaborare esperti di discipline differenti, come antropologi, etnografi, sociologi e artisti, per integrare le diverse competenze e consentire una lettura nuova e originale dello spazio urbano.
I lavori realizzati a Tallin sono stati poi esposti sia nella capitale estone e a Londra in occasione dell’Urban Photo fest 2016.

Nel 2017 abbiamo realizzato un secondo laboratorio urbano, questa volta sul tema delle Cartografie, che si è svolto a Madrid e poi di nuovo a Tallinn. In quest’occasione, oltre a organizzare una presentazione espositiva dei lavori abbiamo prodotto una pubblicazione in edizione limitata, accompagnata da una registrazione audio.
E’ proprio in occasione dei laboratori che Urbiquity diventa un vero collettivo, una struttura orizzontale e aperta. Noi forniamo un punto di partenza, integrandolo con esperti provenienti da discipline differenti, e restituiamo una visione collettiva in cui tutti i partecipanti sono Urbiquity.

Nel 2018 abbiamo scelto il tema ‘In Transit’ e la città di Milano, la mia città, come luogo di osservazione.
In particolare ci siamo concentrati sulla zona di via Padova partendo però, nella nostra osservazione, dalla Milano romana e dai canali. Un altro elemento fondamentale per quell’area è la ferrovia: dal 1850 in poi la zona di via Padova, essendo meno fertile, si è sviluppata soprattutto per favorire i trasporti e l’industria. La settimana di lavoro è stata accompagnata da incontri con diversi esperti appartenenti a discipline e contesti socio-culturali differenti: l’associazione culturale TumbTumb, Il laboratorio di ricerca urbana e design T12-LAB, il centro della comunità musulmana di via Padova. Al termine del Laboratorio i progetti realizzati sono stati presentati in una mostra presso il centro di arte ASSAB ONE, nostro partner di questo laboratorio urbano. In seguito abbiamo presentato i diversi progetti anche presso Fondazione Stelline, nell’ambito del ciclo di conferenze intorno alla mostra di Michael Wolf ‘Life in cities’.
I progetti realizzati dal collettivo entreranno a far parte dell’archivio di Urbiquity, ma ci sarà anche una pubblicazione cartacea.

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Andrea Isola
Milano e La Notte - workshop e urban walk © Andrea Isola

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Andrea Isola

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Carlo Corradi
Milano e La Notte - workshop e urban walk © Carlo Corradi

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Carlo Corradi

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Enrica Bosisio
Milano e La Notte - workshop e urban walk © Enrica Bosisio

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Enrica Bosisio

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Stefano De Grandis
Milano e La Notte - workshop e urban walk © Stefano De Grandis

Milano e La Notte - workshop e urban walk © Stefano De Grandis

Urbiquity Urban Lab Milano 2018
Urbiquity Urban Lab Milano 2018

Urbiquity Urban Lab Milano 2018

Parallelamente, sempre a Milano, abbiamo organizzato una passeggiata tra il giorno e la notte ispirata al film del 1961 di Antonioni che si intitolava, appunto, ‘La Notte’. E’ stato un laboratorio breve che ha ‘usato’ i luoghi citati nel film per vedere come la città si è trasformata oggi rispetto al 1961, mettendo in qualche modo a confronto due periodi di crescita e grandi aspettative. Nel film vi è un rapporto molto stretto tra personaggi e spazio circostante. E poi, esattamente come il laboratorio, si svolge in un arco temporale molto breve, un pomeriggio e una notte. In questo caso abbiamo girato in particolare nella zona intorno alla Stazione Centrale e al Centro Direzionale. Prima di camminare abbiamo visto degli spezzoni del film come quello in cui Lidia, la protagonista interpretata da Jeanne Moreau, vaga a piedi per la città.
In sociologia, Monica Sassatelli parla di una nuova forma, detta lirica, in cui si presta attenzione alle emozioni che proviamo attraversando la città.
E’ una modalità di ricerca in cui la classica separazione tra ricercatore e oggetto d’indagine sfuma in un dialogo organico. Le percezioni ed emozioni dell’osservatore diventano un elemento chiave nella lettura dello spazio urbano.

Nella vostra presentazione sembra avere un ruolo centrale il camminare. Perché?

Usiamo la camminata come metodologia di ricerca. E’ una modalità che abbiamo imparato all’università e poi applicato nei nostri laboratori. Percorrere la città a piedi è fondamentale per osservare il contesto urbano da una prospettiva diversa. In genere i nostri laboratori sono composti, anche per scelta nostra, per metà da persone del luogo e per metà da stranieri. Per entrambi attraversare la città a piedi è molto utile . Camminare è una premessa più esperienziale che teorica, che si ricollega da un lato al concetto e alla pratica del flâneur (ovvero il camminare che favorisce la pratica creativa) e dall’altro è una vera e propria metodologia prevista dalla letteratura della sociologia urbana.

Anche a questo riguardo vi è stata un’evoluzione. Nei primi laboratori l’area di indagine era la città in toto, mentre oggi tendiamo e scegliere dei percorsi prefissati. In parte è stata una scelta necessaria: il formato di adatta alla città e l’estensione di Milano imponeva una selezione, pensata anche per favorire una certa coerenza tra i progetti che ne sarebbero risultati. Cammino significa azione, costruzione e narrazione.

Il lavoro di Mattias è incentrato sul tema della relazione tra identità e memoria, mentre Pablo studia le modalità con cui nei contesti urbani le persone trovano soluzioni per resistere al processo di globalizzazione. Un approccio simile al tuo, che osservi in particolare la trasformazione nel rapporto tra uomo e ambiente e gli assi intorno al quale si sviluppa. Vi è un significato politico nei vostri progetti?

Non direttamente. Ma è ovvio che l’osservazione dei contesti problematici crea consapevolezza e conoscenza e quindi dibattito, che poi sono la premessa dell’azione. Le passeggiate urbane producono progetti artistici che danno forma a un’interpretazione soggettiva, quindi a ciò che non aveva una forma, proponendo una nuova lettura. Scopre aspetti sconosciuti e nuove connessioni che possono essere fonte di possibili soluzioni. Paul Klee diceva: «L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile (ciò che non sempre lo è)» [«Kunst gibt nicht das Sichtbare wieder, sondern macht sichtbar», da Schöpferische Konfession, 1920].

Quale sarà il tema del prossimo laboratorio?

Prima di passare a un nuovo tema svolgeremo ulteriormente questo, con una seconda tappa a Tallin. Per l’anno prossimo pensiamo di proporre anche una versione più breve dei progetti, rendendoli più flessibili: sarà possibile partecipare a una settimana intera di urban lab o anche solo a una versione ridotta di tre giorni. L’impianto resterà però lo stesso: la camminata, l’orizzontalità, la multidisciplinarietà.

© Stefano Carnelli
© Stefano Carnelli

© Stefano Carnelli

© Pablo Conejo
© Pablo Conejo

© Pablo Conejo

© Mattias Malk
© Mattias Malk

© Mattias Malk

Sul sito www.urbiquity.co , nella pagina di presentazione dei tre fondatori, ciascuno ha usato un’immagine. Nella tua si vede un prato con dei panni stesi davanti a una casetta e subito dietro le ciminiere di una fabbrica. Pablo mostra palazzi e grattacieli sullo sfondo di una scena di un uomo solitario che pesca. Mattias, invece, un albero davanti a una casa. Che significato hanno queste foto e perché le avete scelte come vostro ritratto?

Non ci avevo mai pensato! La mia immagine è tratta da un progetto del 2013 su un villaggio costruito informalmente sull’estuario del Tago, vicino a Lisbona. Rappresenta il fallimento dell’urbanistica pianificata, in una sovrapposizione innaturale di strutture urbane e turistiche.
La foto di Mattias si giustifica forse con il legame profondo, tipicamente estone, con l’elemento naturale.
La foto di Pablo è tratta da un progetto realizzato ad Hong Kong diversi anni fa e racconta il complicato rapporto tra l’uomo e la città.

Il racconto della città non è la città. Urbiquity osserva la trasformazione urbana e costruisce dei racconti che propongono una nuova lettura. Lo fa attraversando i luoghi e incontrando le persone, esperti di altre discipline, membri di associazioni locali, abitanti. Per tradurre le riflessioni che compie usa la fotografia, che diventa mezzo.

Giulia Zorzi

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