Phom Fotografia

Majlend Bramo è il dodicesimo e ultimo ospite di CartaBianca per il 2021.





CartaBianca è uno spazio editoriale in cui chiediamo ai fotografi di scegliere e raccontarci una loro immagine: come è nata? Che cosa rappresenta nel tuo lavoro? Che processo c'è stato per la sua realizzazione? C'è una storia dietro?
I fotografi rispondono come preferiscono, non c'è un format di risposta predefinito ma solo la libertà di farlo secondo il proprio personale modo di raccontare. È questa la cosa bella, e bianca, appunto.


Il progetto nasce da un'idea di Vanessa Vettorello e Mariateresa dell'Aquila.


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La fotografia scelta da Majlend Bramo

Immagine tratta da "Incredible India"

Tutto nasce da un'esigenza interiore, un'esigenza che vista da vicino mostra una certa vicinanza con un conflitto, con qualcosa di irrisolto. Il lavoro creativo per me é il tentativo, sempre destinato a rimanere incompleto, di  risolvere una dissonanza, uno squilibrio. E' di per se un paradosso perché ciò che é incompleto non può risolversi in maniera piena. Non ha quindi nessun carattere di  compiutezza e non posso dire di averlo mai portato a termine.  

Il modo in cui questa esigenza si manifesta é attraverso la richiesta di attenzione. Accadrà che un determinato soggetto, luogo, evento o storia catturi la mia attenzione. Quello che la mia attenzione reclama viene determinato da chi sono, ovvero da tutte le  esperienze che ho avuto, le persone che ho conosciuto, le cose che ho letto o visto e che hanno contribuito alla formazione di un mio mondo interiore che determina la mia capacità di donare attenzione.

Un'altra componente di questo processo é il mistero, che gioca un ruolo molto grande, ma del mistero si può dire ben poco. 
 

Della parte più chiara e meno misteriosa posso dire che con il tempo c'é stato un passaggio dal "cosa" al "come".


La fotografia é stata, in un primo momento (che é durato tanti anni), un tentativo di interrogazione riguardo a una tematica precisa. Un contenuto definito e sul quale potevo interrogarmi, sviluppando un mio punto di vista più o meno evidente e del quale potevo rendere conto attraverso le fotografie.

Il lavoro più lungo che ho fatto seguendo questo approccio é stato Like sugar in milk nel quale mi interrogavo sul futuro dei Parsi di  Mumbai, gli ultimi seguaci dello Zoroastrismo, probabilmente la religione più antica del mondo. Il campo era circoscritto ad un soggetto solo, il quale é stato studiato, ricercato e "conosciuto", con il quale poi é stata intrapresa una relazione che é durata 4 anni e che ha prodotto poi il relativo foto libro. L'indagine conoscitiva ha aperto le porte a questa piccola comunità che non conoscevo in nessun aspetto e sulla quale avevo deciso di porre l'attenzione. Il lavoro é terminato ma é incompiuto, non ha raggiunto cioè una fine e ne sono contento.  

Potrei ampliarlo per sempre, potrei togliere, aggiungere, rifare. La pubblicazione diventa, in un certo senso, un atto di violenza. Mette il punto ad un discorso che non può avere una fine perché non riuscirà mai a descrivere la totalità della realtà. Rimarrà sempre uno scarto tra quello che uno descrive e la realtà, che sarà sempre qualcosa in più rispetto al descritto, così come la parola non esaurirà mai l'oggetto a cui si riferisce. Credo che  questo scarto sia affascinante e che permetta a tanti altri discorsi di manifestarsi. La pubblicazione, da questo punto di vista, uccide la creazione. Pone un limite chiaro e preciso, come fosse una spada che recide una corda e questo taglio deve essere metabolizzato e accettato.

Paradossalmente noi pensiamo di aver creato qualcosa nell'atto della pubblicazione, quando invece l'abbiamo uccisa. Quella cosa non potrà mai più essere altro da quello che é. Kaput.  


Ma da questa uccisione emerge la libertà della creazione che potrà quindi vagare per il mondo, mentre prima era solo in contatto con il suo autore, potrà esser conosciuta e magari risuonare in qualcuno che decide di interrogarla.  

Seguendo questo flusso di considerazioni ho iniziato altri due lavori, uno dei quali é in fase di "completamento", Incredible India. In questo caso il soggetto é passato in secondo piano e mi sto concentrando più sul "come". Ci sono state tante domande che hanno reclamato la mia attenzione. Cosa produce la fotografia nel momento in cui vuole documentare la realtà? Cosa rimane fuori dalla documentazione? Qual é il suo prodotto di scarto? In che modo i canoni estetici a cui siamo abituati influenzano i soggetti che  raccontiamo? Perché scegliamo alcuni soggetti e non altri? Che ruolo gioca il dominio culturale che esercitiamo nel mondo per quanto riguarda la documentazione fotografica? 

Questo vortice di domande mi ha avvicinato al tema dello stereotipo, un tema che poi ho sviluppato in India, un paese che per motivi affettivi é diventato un punto fisso della mia crescita personale e che a mio parere detiene una folta produzione visiva di stereotipi. Il vecchio rugoso, il mendicante, le strade polverose, le ragazze dagli occhi a mandorla, i bambini che corrono nelle viuzze di case colorate, i festival dalle mille luci e colori…  

Ma che cosa origina gli stereotipi? In che modo una narrazione su un determinato argomento diventa la sola narrazione su quell'argomento e di conseguenza forma uno stereo-tipo, ovvero un'immagine fissa. Lo stereotipo era una lastra usata un tempo nella stampa a contatto che rappresentava il master di stampa, una copia dell'originale, e che veniva usata per stampare in sequenza tutte le successive copie. Si usava lo stereo-típo per non sciupare l'originale e per avere una stampa sempre identica all'altra. Il termine é stato poi metaforicamente preso in prestito per significare appunto un'immagine fissa e parziale rispetto a qualcosa. Gli stereotipi sono difficili da scardinare proprio per questa loro rigidità e ripetitività che fa parte del loro codice originario. L'ottusità dello stereotipo era insita nella sua funzione e non dobbiamo meravigliarci che sia così difficile da superare. C'é uno stereotipo per qualsiasi cosa.  

Il processo documentativo per questo progetto é stato quindi molto diverso rispetto ai precedenti lavori. Non c'é più un soggetto da conoscere e studiare, non mi interessa perché ci siano gli stereotipi sull'India, un paese vale l'altro, mi chiedo invece come si generino; passo quindi dal cosa al come. Questo cambio di direzione ha portato a tante altre conseguenze, una tra tutte l'estetica fotografica. Come valutiamo la bellezza di una foto? A quali canoni ci rifacciamo? Da cosa hanno avuto origine e perché si sono formati degli stereotipi riguardo alla bellezza di una fotografia.

Mi interrogo su cosa considero "bello" in una foto, mi chiedo se riconoscerei il bello a cui siamo abituati se facessi tabula rasa del condizionamento culturale che ho ricevuto. Esclamerei che una foto di Henri Cartier-Bresson é bella se non avessi avuto il perenne accostamento tra simmetria geometrica e bellezza? Ne rimarrei indifferente se invece avessi coltivato l'esperienza del bello nella disarmonia? Se osservassi quella fotografia senza proferire nessuna parola, né mentale né orale, quale sarebbe la mia reazione? Credo che quando il "bello" viene legato ad una narrazione  verbale, allora il terreno é fertile per la nascita degli stereotipi. Il punto chiave credo sia nella verbalizzazione ovvero nel tradurre in parole quello che vedo.

Così come é difficile impedire la canonizzazione dell'estetica una volta che é stata descritta in tutti i suoi aspetti, allo stesso modo il terreno é fertile per la stereotipizzazione di un popolo o una nazione nel momento in cui si pensa di poterlo descrivere esclusivamente attraverso la nostra narrazione. La cosa in comune tra i due fenomeni é la testualizzazione di qualcosa che é troppo vasto per essere limitato dalle parole. Per quanto possano essere vere o false le dicerie su un popolo, esse non posso elevarsi ad unico punto di vista e non potranno mai esaurire le innumerevoli sfaccettature che compongo il mosaico di una nazione.  

Il tentativo di arginare il vasto, attraverso la narrazione, é lo stereotipo. È un argomento che mi affascina molto perché apre le porte a tante altre domande. La stessa storia dell'umanità si può leggere come il tentativo, ripetuto per millenni, di arginare il vasto. È forse il movimento interiore che anima il cuore di ogni uomo da tempi immemorabili.  

Uno dei tanti tentativi di limitare l'immenso é stato il racconto, la storia, l'epopea, il mito, la favola, e uno dei residui di questi tentativi testuali é lo stereotipo. Tutto questo ha stravolto l’atto fotografico come lo avevo eseguito fino a quel momento. Di base la fotografia ha sempre una componente predatoria, specialmente se si tratta di fotografia documentaria. Il fotografo si apposta nel luogo giusto, nel momento giusto  per scattare la sua foto che immortalerà il soggetto come lui desidera e come lui pensa sia più utile allo scopo della storia che sta raccontando.

Ci sono stati diversi autori che hanno ragionato su questo aspetto. Le considerazioni che ho appena fatto vanno ovviamente a rifiutare questo approccio. Si pone comunque il problema di scegliere quando scattare le  fotografie, a che ora? Con la luce di mezzogiorno o quella dei tramonti? Chi vado a fotografare? Le persone che vengono considerate fotogeniche? In che ambiente le fotografo? Con quale set-up? Cosa stanno facendo? Sono tutte domande che generano nuove riflessioni e alle quali bisogna rispondere.  

Questo lavoro si é sviluppato lungo una direttrice di radicalità che ha trovato in me una forte sintonia. Perciò: nessun soggetto particolare, nessun luogo specifico, nessuna “storia” da raccontare, né ora del giorno, né attività da svolgere, né armonia estetica da raggiungere, niente di nulla. In queste foto tutto può succedere, niente é detto e tutto può accadere. Le foto non hanno intenzioni particolari e perciò si possono considerare “inefficienti”. Non vanno al punto. Non dimostrano, non dicono, non suggeriscono, non  cercano di essere belle nel senso comune del termine, non vogliono ammaliare o affascinare. Sul perché siano state fatte rimane il mistero e potrebbe essere il tema di una  prossima ricerca cercare di domandarsi il perché.

Majlend Bramo, dicembre 2021.

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Majlend Bramo inizia il suo percorso nell’agenzia foto giornalistica di Massimo Sestini dove fotografa le maggiori notizie fiorentine e nazionali. Consegue l’iscrizione all’Ordine dei Giornalisti come pubblicista ma successivamente si orienta verso una fotografia di tipo documentaristico portando avanti in India il lavoro Like sugar in milk di documentazione della comunità Parsi. A seguire si allontana maggiormente da un uso contenutistico della fotografia per cominciare un percorso di sperimentazione e approfondimento teorico che si esprime nel lavoro in fase di esecuzione Incredible India.
www.majlendbramo.com e https://www.instagram.com/majlendbramo/

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