Phom Fotografia

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Da "Forgotten memories". Un monaco prega nella chiesa del monastero Visoki Dečani. Costruito nella metà del XIV secolo e dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, risulta adesso inserito nella lista dei Patrimoni dell’umanità in pericolo. Da anni è in atto un’opera di completo restauro. E’ abitato da 35 monaci, molti dei quali vi sono entrati negli ultimi 12 anni. Protetto dall’esercito italiano. Dečani, Kosovo.

Da "Forgotten memories". Un monaco prega nella chiesa del monastero Visoki Dečani. Costruito nella metà del XIV secolo e dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, risulta adesso inserito nella lista dei Patrimoni dell’umanità in pericolo. Da anni è in atto un’opera di completo restauro. E’ abitato da 35 monaci, molti dei quali vi sono entrati negli ultimi 12 anni. Protetto dall’esercito italiano. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten Memories”. Il “badnjak” - il ceppo di Natale dei cristiano-ortodossi serbi. Il rito consiste nel bruciare un ceppo di quercia fuori dai portali della chiesa poche ora prima della mezzanotte durante la Vigilia di Natale. Nei giorni che precedono le celebrazioni natalizie, i monaci salgono sulle montagne (scortati dai militari) per cercare il ceppo da tagliare. Dečani, Kosovo.
Da “Forgotten Memories”. Il “badnjak” - il ceppo di Natale dei cristiano-ortodossi serbi. Il rito consiste nel bruciare un ceppo di quercia fuori dai portali della chiesa poche ora prima della mezzanotte durante la Vigilia di Natale. Nei giorni che precedono le celebrazioni natalizie, i monaci salgono sulle montagne (scortati dai militari) per cercare il ceppo da tagliare. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten Memories”. Il “badnjak” - il ceppo di Natale dei cristiano-ortodossi serbi. Il rito consiste nel bruciare un ceppo di quercia fuori dai portali della chiesa poche ora prima della mezzanotte durante la Vigilia di Natale. Nei giorni che precedono le celebrazioni natalizie, i monaci salgono sulle montagne (scortati dai militari) per cercare il ceppo da tagliare. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten memories”. Un monaco intagliatore presso il monastero Visoki Dečani. Avulsi dal mondo fuori dal monastero, i monaci sono completamente autosufficienti nello svolgere le attività della vita quotidiana. Ciascuno di essi ricopre un ruolo determinato all’interno della comunità. Dečani, Kosovo.
Da “Forgotten memories”. Un monaco intagliatore presso il monastero Visoki Dečani. Avulsi dal mondo fuori dal monastero, i monaci sono completamente autosufficienti nello svolgere le attività della vita quotidiana. Ciascuno di essi ricopre un ruolo determinato all’interno della comunità. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten memories”. Un monaco intagliatore presso il monastero Visoki Dečani. Avulsi dal mondo fuori dal monastero, i monaci sono completamente autosufficienti nello svolgere le attività della vita quotidiana. Ciascuno di essi ricopre un ruolo determinato all’interno della comunità. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten memories”. Fedeli nel refettorio del monastero Visoki Dečani. Il 90% della popolazione attuale del Kosovo è composta da albanesi musulmani. Soltanto una ridotta percentuale appartiene alla minoranza ortodossa serba. Dato l’elevato rischio di attacchi da parte della maggioranza albanese, la minoranza serba si reca nel monastero soltanto in occasione dei maggiori eventi religiosi, quali il giorno di Natale e quello di Pasqua. Dečani è un piccolo villaggio dove intolleranza etnica e religiosa sono ancora profondamente radicate. Dečani, Kosovo.
Da “Forgotten memories”. Fedeli nel refettorio del monastero Visoki Dečani. Il 90% della popolazione attuale del Kosovo è composta da albanesi musulmani. Soltanto una ridotta percentuale appartiene alla minoranza ortodossa serba. Dato l’elevato rischio di attacchi da parte della maggioranza albanese, la minoranza serba si reca nel monastero soltanto in occasione dei maggiori eventi religiosi, quali il giorno di Natale e quello di Pasqua. Dečani è un piccolo villaggio dove intolleranza etnica e religiosa sono ancora profondamente radicate. Dečani, Kosovo.

Da “Forgotten memories”. Fedeli nel refettorio del monastero Visoki Dečani. Il 90% della popolazione attuale del Kosovo è composta da albanesi musulmani. Soltanto una ridotta percentuale appartiene alla minoranza ortodossa serba. Dato l’elevato rischio di attacchi da parte della maggioranza albanese, la minoranza serba si reca nel monastero soltanto in occasione dei maggiori eventi religiosi, quali il giorno di Natale e quello di Pasqua. Dečani è un piccolo villaggio dove intolleranza etnica e religiosa sono ancora profondamente radicate. Dečani, Kosovo.

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Da "Forgotten memories". Il monastero Visoki Dečani, costruito nella metà del XIV secolo e dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Da anni è in atto un’operazione di completo restauro. E’ abitato da 35 monaci.

Da "Forgotten memories". Il monastero Visoki Dečani, costruito nella metà del XIV secolo e dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. Da anni è in atto un’operazione di completo restauro. E’ abitato da 35 monaci.

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Da "Monia".

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Da "Monia".

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Da "Monia".

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Da "Monia".

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Da "Vanishing".

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Da "Vanishing". Saintes Maries de la mer. 2007. Pellegrinaggio gitano, che si svolge nella seconda metà di maggio.

Da "Vanishing". Saintes Maries de la mer. 2007. Pellegrinaggio gitano, che si svolge nella seconda metà di maggio.

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Da "Vanishing".

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Da "Vanishing". Saintes Maries de la mer. 2007. Celebrazioni e pellegrinaggio in onore di Santa Maria Salomè e Santa Maria Giacobbe. Jacobè.

Da "Vanishing". Saintes Maries de la mer. 2007. Celebrazioni e pellegrinaggio in onore di Santa Maria Salomè e Santa Maria Giacobbe. Jacobè.


Giovanni Cocco è un fotografo freelance che pubblica regolarmente su diverse riviste e magazine italiani e internazionali. Fotografo autodidatta, a
pproda al professionismo dopo aver seguito diversi workshop.Interessato da sempre ai temi antropologici, sociali e ambientali, ha sviluppato un approccio molto personale caratterizzato da una "lateralità" dello sguardo, che lo ha portato a vincere numerosi premi a livello internazionale (l’Anthropographia Award, il FotoVisura Grant, l’American Photography, il Prix Roger Pic tra gli altri). Lo abbiamo intervistato, cercando di cogliere gli aspetti che caratterizzano il suo lavoro di fotografo.

La tua fotografia appare “minimale” nello stile, ma acuta e profonda nei gesti che raccoglie, nella scelta dei temi e nel trattamento visivo - questo a nostro modo di vedere. Cosa cerchi con la fotografia?

Sono attratto da quello che esce dall’ombra, dai corpi che si prendono la luce, dall’armonia e dalla bellezza. È un processo istintivo attraverso il quale intravedo storie, intreccio rapporti, mi spingo in luoghi sempre diversi, entro in qualche modo nelle vite degli altri.

Hai dato attenzione ad alcuni temi meno trattati sul piano mediatico, ma che sono fondamentali indicatori degli equilibri socioeconomici e culturali, come “Toiling Tunisia” (sul determinante lavoro agricolo delle donne in Tunisia), “Forgotten Memories” (sulla scomparsa del patrimonio cristiano ortodosso durante la guerra del Kosovo), “Moving Walls” (sulle barriere costruite ai confini dell’Europa per ostacolare l’immigrazione) o come in "Vanishing" (sul senso dei rituali collettivi). È come se mettessi in funzione uno sguardo tematicamente laterale - se ci permetti la definizione - interessato ad alcune connessioni profonde, meno evidenti, ma fondamentali per le situazioni che affronti. Cosa ci puoi dire in merito?

Cerco temi che contrastino un atteggiamento predatorio, in un’epoca in cui la produzione di immagini è diventata di massa.  Sono attirato da soggetti che mi permettono di lavorare con lentezza. Il mio istinto mi porta verso storie che creano connessioni intime, attraverso l’esperienza vissuta e il contatto umano. Per realizzare Forgotten Memories, ad esempio, ho vissuto per diversi mesi in un monastero ortodosso in Kosovo. È stata una esperienza formativa, di incontro, che ha condizionato anche il mio approccio con la fotografia. Ho imparato a cercare una fotografia della sottrazione, in cui togliere è più importante che aggiungere. In questo senso, uno sguardo che definirei laterale può essere la strada migliore per arrivare in profondità.

Nel tuo lavoro fotografico non troviamo particolare enfasi visiva. Al di fuori della chiacchiera tecnologica, ti chiediamo che ottiche usi e come la scelta del dispositivo tecnologico è connaturata al tuo stile.

La scelta tecnologica dipende dalla relazione che voglio stabilire con il mondo: una specie di atteggiamento mentale, per citare Alec Soth. Cerco di tornare spesso all’uso della pellicola e al medio formato, per ritrovare un pensiero fotografico più solido alla base di ogni singolo scatto, per avere un tempo lungo per guardare le cose.

In molte tue fotografie si costruiscono delle relazioni tra diversi soggetti - sia umani sia non: fa parte di un tuo modo di pensare e guardare?

Sì. Mi piace cercare fili invisibili che mantengano nello stesso spazio visivo le persone, i loro pensieri e l’ambiente che li circonda. Seguendo questi percorsi immaginari trovo la mia visione, il mio modo di mettere in relazione e trovare una connessione tra figure, paesaggi e memoria. È un altro modo per essere presente, per esserci, dentro quello spazio.

Ci sembra che il contrasto - soprattutto nel bianco e nero – sia il dispositivo con il quale produci la tensione nelle tue fotografie, ad esempio in “Vanishing”. É così?

Il bianco e nero è un linguaggio che mi permette di lasciarmi andare. Un modo di fotografare minimale e allo stesso tempo onirico, astratto, fatto esclusivamente di luci e ombre. Questa libertà mi aiuta ad accedere a un livello di lettura della realtà più introspettivo e, come nel caso di Vanishing, più emotivo.

Cerco sempre una sorta di tensione, e il bianco e nero mi aiuta a crearla.

In molte tue immagini, in particolare in “Monia”, troviamo una volontà di costruire ambienti visivi in cui far abitare, o quantomeno collocare, la persona ritratta, come se ricostruissi intorno al soggetto un suo mondo. Cosa ci puoi dire?

Fotografare Monia è per me un continuo atto di conoscenza. Attraverso la fotografia e l’incontro cerco di capire qual è il suo modo di guardare il reale e di abitarlo. Provo a cogliere quello che coglie lei. I mondi che vedo intorno a Monia non esisterebbero senza di lei, raccontano la sua personalità. Per questo cerco di rappresentare l’ambiente visivo che la circonda.

Come costruisci il rapporto con le persone che ritrai?

Di solito ho subito chiaro in mente come fotografare una persona. Già dal primo sguardo. Prima di farlo però ho bisogno di instaurare un rapporto di scambio, di fiducia: spiego il mio progetto e ascolto la loro storia. Cerco di instaurare un’intesa, una relazione fatta di piccole confidenze prima di cominciare a scattare.

Come sei solito preparare i tuoi progetti?

Mi piace molto una definizione di John Berger. Quando comincia a scrivere una storia dice che “entra nella fase dell’ascolto”. Un ascolto fatto di suoni, voci e parole. Anch’io cerco di entrare in quello stesso stato: dal momento in cui trovo un’idea, cerco di leggere molto su quel tema. Guardo film. Cerco storie orali. E ascolto molta musica, che ha un qualche legame con la mia storia. Mi aiuta ad entrare in un clima mentale, come lo chiama Berger. Durante questa fase metto giù le linee guida del lavoro. I luoghi, le persone, gli oggetti. Contemporaneamente, e in modo del tutto istintivo, la mia immaginazione comincia a produrre figure di riferimento – quelle che poi vado a cercare con gli occhi nel mondo reale.

Puoi dirci che approccio hai nei tuoi differenti lavori, per esempio quelli che produci in autonomia rispetto agli assegnati, o anche rispetto ai lavori commerciali?

Per quanto riguarda i lavori commissionati e i lavori commerciali ho una forte disciplina mentale. La carta stampata ha delle regole precise, so che devo fare un certo tipo di fotografie. Nei progetti a lungo termine, e cioè quelli che di solito produco più in autonomia, ho una maggiore possibilità di lasciarmi andare a una fotografia di ricerca e di sperimentazione. In ogni caso, l’energia impiegata nella fotografia è sempre la stessa.

Sul tuo sito c’è una sezione Commercial dove le fotografie riprendono in buona parte lo stile dei tuoi lavori che troviamo nella sezione projects. I committenti ti scelgono per questo?

I committenti cercano spesso un approccio fotografico diverso. Di conseguenza scelgono fotografi di reportage, che oltre ad avere uno sguardo alternativo rispetto al classico fotografo pubblicitario, danno anche la sensazione di portare con sé un’esperienza vissuta che può arricchire in modo originale i prodotti delle campagne commerciali.

I lavori fotografici che troviamo nella sezione Projects che destinazione hanno? (Un libro, una mostra?)

La fotografia dovrebbe avere sempre come destinazione una mostra e un libro, per completare il lavoro e dare vita alle immagini. I miei progetti nascono con questa intenzione ma non tutti, purtroppo, la realizzano.

Se pensi alla tua professione di fotografo ne individui anche un ruolo sociale?

L’anima della fotografia è la capacità di lasciare una traccia. Una memoria della realtà. Quindi, se per ruolo sociale si intende raccontare un’esperienza allora sì, penso che la mia fotografia abbia questa destinazione. Se invece significa credere nella fotografia come mezzo per cambiare le cose, o come strumento per rappresentare una verità oggettiva, credo sia un’enorme illusione. Tutte le fotografie sono per loro stessa natura ambigue.

Quando realizzi un progetto in fase espositiva o di pubblicazione, pensi a noi che guarderemo le tue fotografie? Cosa vorresti che accadesse nell’incontro con il tuo lavoro?

Mi piacerebbe portare chi guarda dentro un mondo. Una dimensione nuova e unica da esplorare. Vorrei imparare ad integrare le foto anche con altri linguaggi per dare a chi osserva diverse vie di lettura – perché purtroppo le immagini in sé non conservano il significato di un evento ma offrono solo una parte, laterale e soggettiva, della mia personale interpretazione di un momento.

Considerando il tuo tipo di fotografia attento alle persone e alle situazioni di vita, che rapporto instauri con la narrazione?

Non cerco una narrazione cronologica o descrittiva. Seguo il filo della memoria e dell’inconscio: per raccontare una storia cerco di capire che cosa significa per me, per la mia esperienza, e provo a rappresentarne la mia visione. Mi pongo delle linee guida e poi mi lascio trasportare dagli avvenimenti.

Quando un tuo lavoro fotografico si concretizza in un editoriale, una mostra o un libro, che rapporto stabilisci tra la singola immagine e la sequenza scelta?

Ogni singola foto ha una sua storia. E credo che si possa guardare una mostra senza seguire un percorso obbligato. Così come è possibile sfogliare un libro fotografico iniziando anche dal centro o dalla fine. Un approccio diverso e libero favorisce una visione personale del lavoro, ognuno può viverlo a modo suo dando vita a una nuova interpretazione.

Da quello che abbiamo visto, ci sembra che l’editing ricopra un ruolo molto importante all’interno dei tuoi progetti. È così? Se sì, lo affronti tu direttamente o ti fai seguire anche da una persona esterna al lavoro?

Alex Majoli dice che nella fase di editing “decidi chi sei”. Condivido pienamente questo pensiero, ed è per questo che adesso edito quasi sempre da solo. Poi cerco il confronto con alcune persone di cui mi fido e che non fanno necessariamente parte del mondo fotografico.

Ci sembra che tu non abbia mai realizzato delle produzioni multimediali. È una scelta? Hai già affrontato queste modalità o lo affronterai?

Ad essere sincero sto partendo proprio adesso con un nuovo progetto insieme ad una scrittrice, Caterina Serra. Con due linguaggi diversi, affrontando uno stesso tema, cerchiamo di capire come la scrittura e la fotografia possano stare insieme pur restando indipendenti. Mi piacerebbe anche fare un film, ma questa è un’altra storia.

Rispetto ai cambiamenti cui assistiamo nell’ambito del giornalismo e del fotogiornalismo, come credi che sarà il tuo futuro (sia sul piano tecnologico che come ruolo)?

Io preferisco definirmi semplicemente un fotografo. Non amo il fotogiornalismo d’assalto, l’essere dappertutto a fotografare l’istante. Ho bisogno di tempo, di capire dove sono, e come starci. Il mio ruolo, e quindi anche il mio futuro, sarà sempre quello di raccontare la mia esperienza – nonostante i paradossi e le difficoltà che la fotografia si trovi ad affrontare.

Che formazione hai, fotografica e non?

Ho iniziato come autodidatta. Solo quando la fotografia era già diventata il mio lavoro, ho frequentato alcuni workshop. Ho fotografato per molto tempo ispirandomi allo stile di fotografi che considero miei maestri finché ho trovato una mia strada più personale. Ovviamente la ricerca continua ancora.

A chi vorresti passare il testimone, e perché?

Intanto ringrazio Fausto Podavini per averlo passato a me.

Io vorrei passarlo a Stefano De Luigi che, al di là della sua meravigliosa carriera, non ha mai smesso di essere curioso, di sentire, di emozionarsi e di esplorare il mondo in cui vive.

Intervista a cura di Marco Benna

ENGLISH VERSION

Giovanni Cocco is a freelance photographer published in a number of Italian and international magazines. A self-taught photographer, he lands to professional photography after attending several workshops. Having always been interested in anthropological, social and environmental topics, he has developed an extremely personal approach that is mainly characterised by a “lateral” eye. He has been awarded manifold international prizes (amongst which there are the Anthropographia Award, the FotoVisura Grant, the American Photography Award and the Prix Roger Pic). We have interviewed him and tried to catch the most characterising traits of his work as a photographer.

In our opinion, your photography appears to be “minimalistic” in its style, yet sharp and profound in the gestures it captures, in the theme choices and in the image processing. What are you in search of with photography?

I am attracted to what originates in the shadows, to bodies catching the light, to harmony and beauty. It is in instinctive process through which I glimpse stories, intertwine relationships, push myself toward constantly new places - it is a way to enter other people’s lives.

You focused on themes that are less covered by the media, and yet they are crucial indicators of socio-economic and cultural balances, such as “Toiling Tunisia” (on the decisive role of female farm work in Tunisia), “Forgotten Memories” (on the perishing of the Christian-Orthodox heritage during the Kosovo war), “Moving Walls” (on the barriers that have been built on the borders of Europe to obstruct immigration) or “Vanishing” (on the meaning of collective rituals). It feels as though you were working - if you allow us - a “thematically lateral gaze” that is oriented toward some deep connections - which, in turn, are less evident, yet still of paramount relevance for the situations you face. What can you tell us about this?

I look for themes that will contrast a predatory attitude in an era where producing images has become a mass activity. I am drawn toward subjects that allow me to work slowly. My instinct drives me to stories that create intimate connections through experience and humane contact. For instance, I lived several months in an Orthodox monastery in Kosovo to create “Forgotten Memories”. It was a formative experience that determined my approach to photography, as well. I learnt to look for a kind of subtracting photography where removing is more important than adding. In this sense, a lateral gaze can be the best way to reach depth.

In your photographic work we do not find a specific visual emphasis. Beyond the technology talk, we would like to ask you which focal length you use and how the choice of the technological device is intrinsic to your style.

The technological choice depends on the kind of relation I want to establish with the world: it is a sort of mental attitude, quoting Alec Soth. I try and go back to using film and the medium format, in order to rediscover a more solid photographic mindset at the basis of each shot - and have more time to observe things.

Different relationships between subjects (both human and non-human) are built in a number of your photographs: is it part of your way of reasoning and observing?

Yes. I enjoy looking for invisible threads that keep people in the same visual space, together with their thoughts and the surroundings. Following in these imaginary paths, I find my vision, my way of putting things in mutual relation and discover a connection between figures, landscapes and memory. It is another way to be present, to be there within that space.

We think that contrast - especially in black & white - is the tool you use to create tension in your photos - see “Vanishing”. Is it so?

Black & white is a language that allows me to let myself go. It is a minimalistic way of shooting, which is simultaneously dreamlike, abstract, and consisting of lights and shadows only. This freedom helps me access a more introspective level of reading through reality - which is also more emotional, like in “Vanishing”.

In a number of your images, particularly in “Monia”, we find an intent to build visual landscapes where to let the portrayed subject inhabit (or at least some space where to place them), as though you were reconstructing their own world around them. What can you tell us about this?

For me, shooting “Monia” is a continuous act of learning. Through photography and gathering together I try to understand what her way of looking at reality and inhabit it is. I try to capture what she captures. The worlds I see around Monia would not exist without her. They recount her personality. That is why I try to depict the visual space that surrounds her.

How do you construct the relationship with the people you portray?

Usually I have a clear mind on how to shoot a person, from the very first glance. However, before doing so I need to establish a relationship based on trust and exchange: I explain my project and listen to their story. I try to found a harmony before starting shooting - a relationship that consists of little intimate secrets.

How do you prepare your projects usually?

There is a definition by John Berger I like quite a lot. When he starts writing down a story he says” he is “entering the listening phase” - a listening that consists of sounds, voices and words. I try to access the same status myself, too: starting from the moment when I find an idea, I try to read a lot about that given topic. I watch movies. I look for oral stories. And I listen to a great deal of music that is somehow connected to my story. It helps me to get into this mental zone, as Berger describes it. It is during this phase that I write down the guidelines of my work - locations, people, objects. Simultaneously - and in a completely instinctive way - my imagination begins producing terms of reference - that is the figures I look for in the real world, through my eyes.

Could you tell us about your approach to different works? For instance, what is your mindset toward assigned, freelance and commercial projects?

When it comes to assigned and commercial projects, I am highly disciplined on a mental level. Printed works follow strict rules and I am aware of the fact that I need to produce a certain type of photographs. As for long-term projects, i.e. those I usually work on autonomously, there is more room for letting myself go to a research and experimentation type of photography. Either ways, I will put in the exact same amount of energy.

Your website features a  Commercial section where photographs are quite reminiscent of the works from the Projects section. Is this how clients choose you?

Clients often seek a different photographic approach. In turn, they opt for documentary photographers who not only have an alternative eye to advertising photographers, but they also convey a feeling of experience that can enrich ad campaigns in an original style.

What is the destination of the works from your Projects section? (A book, an exhibition?)

Photography should always resolve to [producing] a book or an exhibition, in order to complete the work and bring images into being. My projects are always conceived with this intent, but - unfortunately - not all of them end up realising it.

When you think of your job as a photographer do you characterise it with a social role, too?

The soul of photography is the ability to leave a mark, some memory of reality. Therefore, if by social role you mean “the recount of an experience” then yes, I think my photography does have this role. Instead, if you think of photography as a way to change things, or as a tool to represent an objective reality, I believe it is an enormous illusion. All photographs are ambiguous by nature.

When you are working on a project for an exhibition or a publication, do you have us (the viewers of your photos) in mind? What would you wish that could emerge from coming across your work?

I would like to take the viewer inside a world - a new, unique dimension to be explored. I would like to learn to complement photos with other languages, in order to provide the viewer with different tools of reading through it - because, unfortunately, photos in themselves do not maintain the meaning of an event. Rather, they deliver only a lateral and subjective part of my personal interpretation of a moment.

Considering your style of photography (which is highly dedicated toward people and the things of life), what kind of approach do you establish with the narrative?

I do not look for a chronological or descriptive narration. I follow the thread of memory and subconsciousness. In order to recount a story, I try to understand what it means to me and to my experience, and I try to depict my vision of it. I set out guidelines for myself and then I will let events lead me.

When a photographic work turns into an editorial piece, an exhibition or a book, what kind of relationship do you establish between the single image and the chosen sequence?

Each photo has its own story. And I believe you can look at an exhibition without following a fixed course - much like the fact that you might flip through the pages of a photo-book starting from the middle or the end, even. An approach that is different and free promotes a personal vision of the work. Everybody will experience it their own way, thus generating a new interpretation.

From what we have seen, it seems like editing plays a very important role within your projects. Is it correct? If so, do you do it yourself or do you have some external editor assist you?

Alex Majoli says that during the editing phase “you decide who you are”. I fully agree on this, and that is why I always try and do the editing myself. Then I will look for confrontation with people I trust - who do not necessarily belong to the photography industry.

It seems to us that you have never released any multimedia work. Is it a choice? Have you already tried this mode out or will you, in the future?

To be honest I am just only starting a new project with writer Caterina Serra. By tackling the same topic through two different languages, we try to understand how writing and photography may stick together whilst remaining independent. I would also like to shoot a movie, but that’s another story.

Considering the changes that are occurring in journalism and photojournalism, how do you see your future (involving both technology and your professional role)?

I prefer to simply define myself as a photographer. I’m not mad about guerrilla photojournalism - being everywhere to capture every instant. I need time to understand where I am and how to be there. My role, hence my future, will always be to recount my own experience - despite the paradoxes and difficulties photography happens to face.

What is your photographic and non-photographic formation?

I started off as a self-taught. It was only when photography had become my job that I attended a few workshops. For a long time I would shoot by drawing inspiration from the photographers I deem as my mentors, until I found my own, personal path. Obviously my research keeps going on.

Who would you like to pass the baton to and why?

First I would like to thank Fausto Podavini for passing it on to me.

Then I would like to pass the baton to Stefano De Luigi who, beyond his marvellous career, has never ceased to be curious, to feel, to get emotional and explore the world he lives in.

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