Phom Fotografia

Serena Vittorini è l'ottava ospite di CartaBianca.




CartaBianca è uno spazio editoriale in cui chiediamo ai fotografi di scegliere e raccontarci una loro immagine: come è nata? Che cosa rappresenta nel tuo lavoro? Che processo c'è stato per la sua realizzazione? C'è una storia dietro?
I fotografi rispondono come preferiscono, non c'è un format di risposta predefinito ma solo la libertà di farlo secondo il proprio personale modo di raccontare.È questa la cosa bella, e così bianca, appunto.

Il progetto nasce da un'idea di Vanessa Vettorello e Mariateresa dell'Aquila.



==================

La fotografia scelta da Serena Vittorini


Sono sempre stata affascinata dal potere delle immagini di descrivere la realtà e allo stesso tempo di farci interrogare sulla sua rappresentazione. Credo che l'immagine contenga la possibilità di creare un canale tra l’elemento fotografato e le sue possibili interpretazioni ed è per questo che nel mio lavoro l'oggetto o il soggetto sono quasi sempre decontestualizzati per consentire una lettura più profonda.

Nella mia pratica di ricerca, la mia esigenza è quella di combinare il contenuto visivo con altri mezzi espressivi come l'audio, l'installazione e il video. Qualsiasi tipo di linguaggio, qualsiasi forma di espressione per me non è qualcosa di specifico e chiuso ma piuttosto il frutto di una serie di relazioni con diversi altri mezzi e discipline.

La foto che presento fa parte di uno dei miei ultimi lavori, "Dans Mon Souvenir, C'était Blanc”. Si tratta di una narrazione multimediale che esplora storie e memorie tra il Belgio e l'Italia nel contesto del secondo dopoguerra. L'installazione risultante comprende una serie di fotografie, materiale d'archivio e un pezzo sonoro che delinea la storia di un personaggio fittizio, figlio di immigrati italiani in Belgio dopo la seconda guerra mondiale.

La fotografia scelta ©Serena Vittorini
©Serena Vittorini
Provini ©Serena Vittorini
Provini della fotografia scelta da Serena Vittorini ©Serena Vittorini
Set per la realizzazione dell'immagine scelta ©Serena Vittorini
Set per la realizzazione dell'immagine scelta ©Serena Vittorini

Nell’immaginario comune l’emigrazione italiana fu un fenomeno “spontaneo” in cui milioni di persone decisero di andare a lavorare e quindi a vivere in altri paesi europei, o addirittura in altri continenti, per sfuggire alla fame. Nella realtà delle cose il fenomeno fu molto più complesso e, in diversi momenti fu lo stato italiano a inviare letteralmente i suoi cittadini a lavorare in altre nazioni, negoziando le condizioni della loro emigrazione, a volte persino pagando loro le spese di viaggio e favorendo, attraverso accordi bilaterali con altri stati, la collocazione dei lavoratori ancor prima della loro partenza dall’Italia.

Un fenomeno che trovò forse il suo apice nel dopoguerra, in un momento in cui il paese aveva poco lavoro da offrire, e scarse risorse economiche per risollevarsi. Un caso esemplare da questo punto di vista è l’accordo italo-belga del 1946 che fece sì che migliaia di giovani partissero dall’Italia per andare a lavorare nelle miniere di carbone in Belgio. Il governo italiano firmò un vero e proprio trattato nel 1946, che sanciva che l’Italia avrebbe ricevuto una certa quantità di carbone per ciascun minatore italiano sotto i 35 anni di età e in buona salute che andava a lavorare in quelle miniere. In teoria l’accordo dichiarava anche le condizioni di lavoro, di vita e salariali dei minatori che però, arrivati sul posto, si accorsero ben presto di quanto in realtà fossero diverse.

Una delle miniere storiche e più grandi era vicino a Charleroi, a Marcinelle, al Bois de Cazier, dove nel 1956, in seguito a un incendio e poi a un’esplosione avvenuta per errore umano, morirono 263 uomini di cui 136 italiani. Marcinelle può essere considerata una “memoria difficile” italiana, anche se non riporta un conflitto o una guerra o una strage politica, ma perché conserva la storia di migliaia di italiani che morirono sul posto di lavoro che gli era stato presentato come l'occasione di ottenere una vita migliore, ma che in realtà era strumentale all'approvvigionamento di materie prime che diedero un enorme impulso alla giovane repubblica italiana.

«Dans mon souvenir, c’était blanc» costruisce in parte un teatro della memoria di quel terribile evento. Il lavoro non descrive, ma si limita a evocare, a far emergere a tratti immagini nitide, nette e isolate, accanto a foto d’epoca e a immagini oniriche. Non occorre descrivere per ricordare, la memoria non è un monolite che risponde a ogni domanda con chiarezza e decisione, ma è un’immagine che appare e può prendere le sfumature più diverse a seconda di chi le guarda. Il lavoro corre su due binari: uno visivo, in primo piano, e uno di scrittura e audio che fa da sfondo.

Un uomo racconta la sua storia, e la storia del paese da dove si era partiti e dove si è costretti a tornare, e la storia del paese dove si era arrivati e che poi si è costretti a lasciare. Il lavoro prende il suo titolo da una ricerca della prof.ssa Anne Morelli, esperta di emigrazione italiana in Belgio, che dopo aver condotto numerose interviste con italiani emigrati in Belgio, ha rimarcato che uno dei primi ricordi di chi arrivava nel paese era l’idea che tutto fosse coperto di neve. Un ricordo che non sempre corrispondeva alla realtà, ma che in qualche modo si è impresso collettivamente nella mente di chi, spesso arrivando dal meridione italiano, approdava in un paese nordico, molto freddo.

Per questo motivo il bianco diviene un colore ricorrente, e prende diverse forme: un agnello, simbolo di sacrificio ma anche ricordo dei pascoli da bambini, dell’Italia pastorale del dopoguerra e della mia infanzia; un canarino stretto da una mano pallida, che da un lato esprime un'estrema fragilità, e dall’altro ricorda gli uccellini che venivano tenuti in miniera per segnalare la mancanza di ossigeno ed evitare la morte lenta per asfissia dei minatori; un cumulo di cristalli bianchi che fa pensare ancora alla neve, ma anche al sale, che rappresentava la scalata sociale per chi viene dalla campagna, un alimento da “ricchi” per i poveri contadini.

Contrapposti ai bianchi, i neri: dei terril, delle carbonaie e dei paesaggi oscuri della Vallonia. E una figura di vecchio, con una torcia sul casco da minatore, con un volto che sembra fatto di carbone, ricorda che la memoria di quel che è stato riguarda tutti, non solo chi da quelle miniere non è più tornato. Accanto la foto dei terril, le colline artificiali nate dall’accumulo delle scorie delle miniere di carbone, che diventano parte del paesaggio “naturale”, e simbolo del depauperamento dissennato dalla terra.

Il lavoro non segue una logica formale, ma usa i diversi formati delle immagini per costruire un’architettura dei sentimenti. Le immagini vogliono essere un invito ad avventurarci nelle strette vie dei nostri ricordi personali, come io faccio con i miei. «Dans mon souvenir, c’était blanc» infatti non è solo la storia degli emigranti italiani del dopoguerra in Belgio, ma è anche la mia, come emigrata a Bruxelles dall’Abruzzo e come protagonista dei ricordi narrati nel testo.

Due storie che si intrecciano, che si confondono, che si sentono in filigrana nell’audio, il quale a tratti parla con la voce del figlio dei minatori italiani, e a tratti con la mia. Sono sempre stata affascinata e turbata dal concetto di memoria, e il lavoro è nato proprio da una difficoltà personale: non ho ricordi di prima dei miei vent'anni. Questo ha avuto e continua ad avere conseguenze sulla mia identità. I flashback della mia infanzia che cito nell’opera sono ricordi recuperati dopo un percorso di terapia. In seguito al mio trasferimento in Belgio e alla richiesta del Cultuurcentrum Mechelen di creare un nuovo lavoro, ho deciso di concentrarmi in parte su questa intima lotta personale e in parte su un periodo storico che ha segnato la storia dell’emigrazione italiana in Belgio.

Inizialmente ho collaborato con l'archivio del Bois du Cazier di Marcinelle, per reperire materiali, fotografie, testimonianze che potessero aiutarmi a capire il periodo storico e a creare una struttura storiografica plausibile.

Parallelamente, ho fatto ulteriore ricerca su materiale audiovisivo già prodotto riguardante l’emigrazione italiana in Belgio. Alcuni riferimenti sono stati: Paul Meyer, Déjà s'envole la fleur maigre; Anne Morelli: l'immigration italienne en Belgique; Biblioteca fotografica, Bois du Cazier Marcinelle; Guy-Marc Hinant, Charleroi le pays aux 60 montagnes; Alain Forti, sull’emigrazione italiana e sul potere delle immagini; Girolamo Santocono, Rue des Italiens; Prima lezione di estetica, Sergio Givone.


Incendio di Marcinelle, 8 agosto 1956, Biblioteca fotografica, Bois du Cazier Marcinelle
Incendio di Marcinelle, 8 agosto 1956, Biblioteca fotografica, Bois du Cazier Marcinelle


Mi sono poi dedicata a "ricostruire" la mia storia, a recuperare alcuni miei ricordi persi e ritrovati grazie al percorso di terapia. Decido di fondere gli elementi estratti dalle testimonianze, dalle immagini e dai documenti storici ai miei ricordi, creando una nuova identità.



«Se ascoltate una voce di vecchio è perché lo sono. E senza un corpo che funziona, a cosa serve una vecchio, se non a ricordare? Ma non sempre riesco. Mi sfugge qualcosa. Molte cose, a dire il vero, forse perché neppure mia madre se le ricordava. Vi dirò allora quello che so.

So che mi chiamo Mario e so che quando tornavo al Paese mi fissavano, loro, quelli che erano rimasti al paese. Del Paese ricordo poche cose. Le campane… mia nonna che cucinava… l'odore della terra… la staccionata che correva lungo l'orizzonte, là dove si addormenta il sole. Il latte fresco, appena munto, che il nonno mi ficcava in bocca direttamente dal suo indice rugoso. Sogno il tempo che avevamo per giocare, di giorno tra i vicoli o lungo il fiume, e di notte vicino ai pascoli. La notte era veramente buona per inseguirsi e mettersi paura a vicenda. Come quando raccontavamo che sopra l'antenna, quelle due fessure rosse che squarciavano il buio erano gli occhi del lupo. E io ci credevo, che i lupi avessero occhi di brace e denti giganteschi.

Quelli che erano rimasti mi fissavano forse perché non gli appartenevo più. Ma che senso aveva dir loro che non ero scappato? Che non sapevo dove altro tornare se non lì, se non al Paese? Mi presentavano così: 'Lui è Mario, parla il francese ed è figlio di minatore'. Ma io non capivo, confondevo. Di notte, allora, sognavo di essere figlio della miniera. La terra, nera, mi aveva partorito. E sognavo loro, che mi guardavano, incuriositi e perplessi, sul ciglio della chiesa. Dal campanile uscivano le loro voci, che sembravano volermi trattenere lì, ma mi allontanavano ad ogni invito.

'Mangia il pane, Mario, che là dove stai tu non ne fanno di buono. Bevi il latte, Mario, che là dove abiti tu non ce n'è di così buono'. 'Là dove abiti' era il Belgio. Per loro un ammasso di pece e lamiere, di soldi pregni di sudore, che uscivano direttamente dalla terra già neri. Ma 'là dove abiti' per me era altro. C'era chi amavo. Per esempio mia madre, che non sempre riusciva a ricordare che io sono Mario, figlio di Pietro il forte. Pietro il minatore. Pietro il sopravvissuto."

Riferimento per un ricordo, nonno, Roio - L'Aquila ©Serena Vittorini
Riferimento per un ricordo, nonno, Roio - L'Aquila ©Serena Vittorini
Riferimento per un ricordo, Roio - L'Aquila ©Serena Vittorini
Riferimento per un ricordo, Roio - L'Aquila ©Serena Vittorini
Nonna e compaesani, Roio - L'aquila ©Serena Vittorini
Nonna e compaesani, Roio - L'aquila ©Serena Vittorini

«Correvamo così forte, quella notte, che non lo vidi il filo spinato che delimitava il pascolo. Non me ne accorsi subito del male che mi feci. Il dolore apparve davvero quando vidi sulla maglia bianca, lacerata, quella chiazza rossa. M'ero tagliato la pancia col confine, che divideva le bestie da noialtri, animali che parlano. Quello, io credo, fu il primo spavento che ebbi.

Odorava di sale, letame e sangue. Non so più quale di quegli odori mi disgustò di più, ma so chi mi ripulì da quell'intruglio. Alla fine del filo spinato, abitava una donna, sui quarant'anni, che stava in una baracca. Sogno anche lei in queste notti. Di cosa era fatta non lo so, né i capelli, né lo sguardo, né gli abiti. Mi sfugge persino il suo nome. Mi è rimasta dentro invece la premura con cui mi disinfettò le ferite. La mano decisa, eppure delicata, che mi asciugava le lacrime dal volto e l'urina dai pantaloni zuppi di paura. Avevo solo 5 anni.»

Grazie a Anne Morelli, Alain Forti, Alessia Capasso, Federico Fontana, Cultuurcentrum Mechelen, Nonna.

Serena Vittorini, aprile 2021.

==================
Serena Vittorini (nata nel 1990) è un'artista visiva che vive e lavora in Belgio. Dopo la laurea in Psicologia, ha sviluppato un interesse per le arti visive. Si è laureata con lode in Fotografia presso l'ISFCI (Istituto di Fotografia di Roma) e ha conseguito un Master in Fotografia Avanzata presso lo IED (Istituto Europeo di Design) di Milano. All'inizio del suo percorso di ricerca ha deciso di concentrarsi sull'analisi della modificazione dei luoghi e sul rapporto tra presenza umana e rappresentazione dello spazio urbano. Negli ultimi anni ha lavorato sul legame tra identità e memoria, confondendo i confini tra intimo e pubblico, realtà e finzione. La sua attuale pratica di ricerca incorpora fotografia, installazione, audio e video per consentire un'interpretazione a più livelli. Nel 2020 ha diretto il suo primo cortometraggio "En ce moment", selezionato alle "Giornate degli Autori" del Festival del Cinema di Venezia.
www.serenavittorini.com

Leave a Reply

MENU